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Un capitalismo sempre in crisi

Incertezze e criticità della nuova e mai vista finora forma di capitalismo. Una riflessione per fornire un diverso punto di vista sul sistema che innescò la nascita della società dei consumi di massa.

di Giuseppe Aletta

* Il sogno americano, Salvador Dalì

Studente corso di laurea magistrale in Scienze Storiche all’Università Federico II. Mancando di un centro di gravità permanente, cerca di attraversare più campi possibili.

DALL’ETA’ DELL’ORO DEL COMPROMESSO KEYNESIANO ALLA RISTRUTTURAZIONE NEOLIBERALE

Il ventennio tra il 1950 e il 1973 viene ricordato come un “eccezionale processo di crescita economica”1, le cui radici vengono ricercate anzitutto nel compromesso tra politica ed economia. Nel luglio del 1944 vengono stipulati i famosi accordi di Bretton Woods, i quali illustrarono il nuovo sistema monetario internazionale fondato sui cambi fissi che permise ai governi nazionali di determinare il valore delle monete e dunque di avere autonomia nelle relazioni internazionali.

È importante però dare rilevanza a ciò che, a mio avviso, è stato il fattore scatenante di questo smisurato processo di crescita e cioè un rapporto di forza disomogeneo in cui a pagarne le spese furono i Paesi dell’OPEC2. Le aziende petrolifere occidentali, come British Petroleum e Arabian-American Oil Company (ARAMCO), comprarono dopo la Seconda guerra mondiale i diritti di concessione dei giacimenti di petrolio; vale a dire che i Paesi del Medio Oriente non erano titolari del petrolio che giaceva sotto la propria terra. A tal proposito vale la pena ricordare l’assassinio del Presidente Iraniano democraticamente eletto Mohammed Mossadegh, vittima dell’attentato orchestrato da CIA e Regno Unito a causa delle sue idee riformiste e della volontà di nazionalizzare il petrolio per finanziare lo sviluppo del Paese.

Alla luce dei fatti l’età dell’oro3 è il frutto di qualcosa di ben più articolato e oscuro di una, seppur non banale, ristrutturazione capitalistica. Il petrolio non aveva soltanto rimpiazzato il carbone, ma era diventato “the lifeblood of postwar consumption“, impianti industriali e industrie petrolchimiche consumavano milioni di barili di petrolio al giorno ed il consumo intensivo ci portò ad una vera e propria dipendenza, tanto da diventare “oil shocked4. È soltanto attraverso questa visione d’insieme che possiamo decostruire questo ventennio e comprendere meglio gli avvenimenti futuri, non solo come risultati di meri eventi politici, ma di veri e propri cambiamenti strutturali dell’economia e delle sfere d’influenza. La crisi petrolifera, innescata dapprima dagli accordi di Teheran del 1971 e poi successivamente dall’embargo imposto dai Paesi dell’OPEC nel 1973, pose fine ai termini ineguali delle concessioni di petrolio che favorirono per più di vent’anni le multinazionali occidentali. L’enorme impatto dell’embargo pose fine agli accordi di Bretton Woods e rese conseguentemente possibile l’avvio del sistema dei cambi flessibili delle valute, il quale fu il riconoscimento della sconfitta degli stati occidentali e l’apertura al dominio dell’alta finanza sancendo la fine dell’età dell’oro.

Prima di continuare con l’analisi dei fallimenti del liberismo, che in campo accademico vengono definiti “ristrutturazioni”, è importante soffermarsi su un concetto già precedentemente accennato e cioè il concetto di autonomia statale. Abbiamo sì affermato che uno dei pilastri dell’età dell’oro è stata la possibilità di spostare dalle mani dell’alta finanza il controllo del denaro mondiale e che le prime incertezze di un risvolto neoliberale erano già presenti durante gli anni ’60, come pensava il pioniere Richard Cooper che si interrogava non tanto sull’efficacia di una economia globale interdipendente, ma piuttosto sulla capacità dei singoli Stati di perseguire autonomamente la propria politica economica5. Non solo i sospetti di Cooper erano azzeccati, ma ne aveva sottostimato gli effetti. Oggi siamo spettatori di governi nazionali ricattati da grandi multinazionali, i quali possono decidere autonomamente di tagliare investimenti in un Paese se la pressione fiscale e i diritti sociali di quest’ultimi non siano adeguatamente accomodati a ribasso.

Fatta questa premessa doverosa circa una diminuzione dell’autonomia statale che si rispecchia sia nell’incapacità dell’imposizione fiscale sia nella scarsissima tutela dei lavoratori, è altrettanto doveroso ricordare il ruolo attivissimo degli Stati nel perseguire i loro interessi imperialistici, Italia compresa. Basti pensare alla convenzione firmata dal ministro dell’Energia israeliano con diverse multinazionali, tra cui ENI, che permette a queste ultime lo sfruttamento di giacimenti di gas offshore di fronte a Gaza, ed ecco che tutto ad un tratto le posizioni dei governi europei circa la situazione in Medio Oriente diventa molto più chiara. Illustrata la peculiare posizione dello Stato all’interno del nuovo paradigma transnazionale è necessario, ora, analizzare il passaggio dall’azienda “verticalmente integrata”, tipica del sistema fordista, ad una deverticalizzazione del sistema produttivo. La nuova ristrutturazione capitalistica, obbligata dalla crisi petrolifera, portò alla nascita di un nuovo modello di impresa definito da Lidia Greco le “catene globali del valore”, da non confondersi con le multinazionali.

Ciò di cui stiamo discutendo è la rivoluzione del sistema organizzativo produttivo dell’impresa e di come quest’ultima si realizzi all’interno della globalizzazione economica e soprattutto all’interno del nuovo paradigma rappresentato dal capitale transnazionale. In questa nuova fase del capitalismo gli Stati non rappresentano più opportunità di sviluppo, bensì delle vere e proprie barriere del capitale. Ciò che distingue la nostra epoca da tutte le altre forme di globalizzazione è di fatto la frammentazione della produzione ed il frazionamento internazionale del lavoro.

Saturno che divora i propri figli, Goya.

Capiamo, dunque, come si realizza il profitto all’interno di un sistema di reti di imprese. Quest’ultimo è di fatto un sistema cooperativo, in cui tutte le parti concorrono alla realizzazione del bene di consumo, ma è allo stesso tempo un sistema competitivo. Il tratto cooperativo del sistema non deve illuderci in una democratizzazione dell’economia: al contrario, in ogni rete di impresa vi è una azienda madre (o leader) che non solo controlla la rete, ma determina il valore del prodotto. Quest’ultimo è determinato dal marchio, dai brevetti e dalle tecnologie che sono per l’appunto di appropriazione dell’azienda madre. I dati sconvolgenti ci mostrano delle asimmetrie della divisione del profitto all’interno del sistema di reti di imprese: più della metà del profitto di un bene di consumo spetta all’azienda madre, mentre le aziende coinvolte nel processo produttivo, come l’assemblaggio, si appropriano dell’1% dell’intero profitto. Qui il nodo nevralgico della questione: il nuovo sistema produttivo non fa altro che accentuare le disuguaglianze, le fasce più ricche della popolazione mondiale accrescono senza sosta le loro ricchezze, fenomeno che si è intensificato maggiormente con la pandemia, mentre le fasce più povere continuano ad impoverirsi. Nei paesi industrializzati vi è il ritorno a forme di sfruttamento “simili se non peggiori di quelle sperimentate ai tempi della prima rivoluzione industriale nella Gran Bretagna del primo Ottocento”, mentre nei paesi in via di sviluppo si alimenta l’estremizzazione più totale del concetto di sostituibilità coniato dalle politiche liberali. I paesi del sud globale sono casa di miliardi di lavoratori altamente sostituibili e che dunque sotto le lenti del sistema di reti di imprese sono nient’altro che gli schiavi del terzo millennio, sfruttati e senza alcun tipo di tutela sociale.

Charlie Chaplin in Tempi moderni.

I dati mostrano chiaramente che l’Europa è in una caduta a picco incontrovertibile, sia economicamente sia anagraficamente e così a ruota molti dei Paesi asiatici che avevano goduto di un boom economico proprio negli ultimi anni come Sud Corea e Giappone. La già precaria, per definizione, “democrazia liberale”6 vive una fase di assoluto decadimento, l’incompatibilità e le contraddizioni intrinseche del  binomio democrazia-liberismo si fanno sempre più acute, proprio come dimostra lo studio della Commissione Trilaterale del 1975, in cui si affermava che in Europa, Stati Uniti e Giappone i problemi di governabilità “nascono da un eccesso di democrazia” e avallando “il ripristino del prestigio e dell’autorità delle istituzioni del governo centrale7.

Nonostante questa non sia la prima volta che il capitalismo si ritrovi a fronteggiare una crisi nera, basti pensare al fatto che vi sono state tre crisi mondiali in meno di un secolo8, quest’ultima ha un carattere decisamente diverso in quanto il nemico da fronteggiare è ben più tosto. La crisi climatica mette in evidenza tutte le contraddizioni e le disuguaglianze dell’ideologia liberale: in un mondo sempre più instabile in  cui nei prossimi anni vedremo la migrazione di miliardi di persone l’inasprimento del legame tra combustibili fossili e crescita economica sarà sempre più difficile garantire la premessa che regge in piedi l’intero sistema, il profitto.

Note

1 Francesco Barbagallo, I cambiamenti nel mondo tra XX e XXI secolo, Bari, Editori Laterza, 2021, pag. 11.

2 L’Organizzazione dei Paesi Esportatori del Petrolio è stata fondata il 14 settembre del 1960 per negoziare con le compagnie petrolifere aspetti riguardanti la produzione, prezzi e concessioni.

3 Per età dell’oro si fa riferimento a quel ventennio, dal 1950 al 1973 circa, in cui vi è stata una crescita economica espansiva senza il riscontro di particolari recessioni (un unicum della storia liberale).

4 Daniel J. Sargent, A Superpower Transformed, U.S.A., Oxford University Press, 2015, pag. 132.

5 Richard N. Cooper, The Economics of Interdependence, McGraw Hill; First Edition (January 1, 1968).

6 La democrazia liberale è per definizione una democrazia elitaria, in cui l’unico potere politico relegato al popolo è il voto.

7 The Crisis of Democracy Trilateral Commission Report, p. 113, 170 Archiviato il 21 agosto 2019 in Internet Archive.

8 La crisi del ’29, la crisi petrolifera degli anni ’70 e la crisi del 2008.

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